Erdogan si (ri)prende la Turchia. Il Sultano è il male minore, o forse no?

Le ultime elezioni in Turchia hanno fornito diverse indicazioni che sarebbe bene tenere a mente e che potrebbero trovare riscontro nell’immediato futuro. L’AKP, partito islamico dei conservatori, del Presidente Recep Tayyip Erdoğan ha vinto le elezioni conquistando il 49,3% dei voti, garantendosi così la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale di Ankara, forte dei 315 seggi conquistati. Il potere autoritario del Sultano ha prevalso di fronte ad un’opposizione davvero troppo velleitaria e incapace di parlare a tutto il Paese, diviso da scissioni interne profonde e tangibili. Basti pensare ai voti che le opposizioni hanno ottenuto nelle diverse aree del Paese: il calo si è avvertito tra tutte le forze scese in campo contro Erdoğan. I kemalisti laici del Chp, lo schieramento politico più votato sulla costa egea e in Tracia, nonostante il successo locale, hanno ottenuto un risultato paragonabile a quello del 7 Giugno scorso, che gli permette di mantenere i 132 seggi in Parlamento. Una forte battuta di arresto l’ha invece subita l’Hdp, partito di centrosinistra filo-curdo, che ha ottenuto il 70% dei voti nella sua roccaforte di Dyarbakir e nel Sud-Est dell’Anatolia, ma solo il 10,4% nel resto del Paese. Selahattin Demirtaş, leader dei democratici curdi, ha scelto una linea morbida per contrastare Erdoğan che, nelle ultime settimane, insieme al primo ministro Ahmed Davutoğlu, ha catalizzato l’attenzione su di sé screditando quotidianamente i filo-curdi e le altre forze d’opposizione. Naturalmente il Presidente turco l’ha fatto nel “suo” stile, censurando i media e facendo chiudere i due principali quotidiani d’opposizione, imputati di essere organi di stampa vicini al PKK e, quindi, di infondere idee estremiste nel Paese. Limitare poi la presenza in televisione delle opposizioni e compiere illazioni riguardo la connivenza tra i vertici dell’Hdp e le frange violente del PKK, è stata l’ultima mossa del leader del partito di maggioranza, prima dell’apertura delle urne. Forse è anche per questo che Erdoğan ottiene oggi ciò che voleva. Prendere, o meglio, consolidare, con il suo potere autoritario, la guida della Turchia attraverso decisioni illegittime e arbitrarie.

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Se il partito di Giustizia e Libertà festeggia, lo stesso non fa Demirtaş (Hdp). Con appena 59 seggi conquistati e il 10,6% dei voti tramite i quali il suo partito ha superato la già altissima soglia di sbarramento – 10%, oggetto di aspre proteste da parte delle opposizioni contro il governo, che non ha modificato la legge elettorale prima di questa tornata elettorale -, sono risultati se non un fallimento, un grosso passo falso. La spinta propositiva dei molti giovani che vogliono un Paese più aperto e progressista, questa volta è mancata e tanti di loro, pronti ad imprimere un nuovo corso al Paese di Atatürk, hanno voltato le spalle al leader dell’Hdp. Quei giovani hanno in parte rinunciato alla nuova prospettiva democratica e hanno barrato, a malincuore, AKP sulla loro scheda elettorale. Tanti gli interrogativi, ma anche tra l’elettorato filo-curdo, i timori di un Paese debole a livello interno e regionale risultano quantomai concreti. La Turchia ha vissuto questi mesi in balìa della sorte. Da un lato un governo instabile e repressivo, in grado di mantenere solo parzialmente il controllo del Paese, dall’altro l’Isis alle porte, le minacce interne al Paese e i due milioni di profughi siriani attualmente presenti all’interno dei confini turchi. Il connubio di simili emergenze hanno portato l’elettore medio a riflettere e a confrontarsi con i problemi che la Turchia oggigiorno vive e che solo una leadership forte e consolidata da tempo può risolvere o perlomeno scalfire. A ciò si aggiunge il clima delle ultime settimane che è stato ed è tutt’ora tesissimo. Il PKK è una minaccia costante e impellente non solo nel Sud-Est del Paese e il pericolo del fanatismo islamico è pressante. Le strumentalizzazioni sapientemente compiute da Erdoğan sulla connivenza tra estremisti curdi e Hdp non hanno che acuito ulteriormente la tensione. E’ forse stata la serrata campagna mediatica degli ultimi giorni che ha permesso al Sultano di superare le sue stesse aspettative a poche ore dal voto. E’ questo il principale motivo per cui molti tra giovani e membri della classe media del Paese hanno legittimato l’attuale Presidente, spinti dall’influenza totalizzante del suo programma politico e dalle effettive minacce che la Turchia vive quotidianamente. Di fronte al pericolo di essere travolti da più parti, hanno preferito l’autoritarismo dell’uomo forte ed esperto – Erdoğan infatti è alla guida della nazione dal 2003 – piuttosto che dare fiducia ad una formazione politica giovane e liberale, ma inesperta come l’Hdp. Il pericolo di attentati spaventa di più della censura, anche se quest’ultima è uno dei punti cardine per la svolta democratica di un Paese, dove la libertà di espressione, come visto, è sottoposta ad un serrato controllo. Ecco perché hanno ritenuto che il Sultano fosse, allo stato attuale delle cose, il male minore. Hic et nunc, direbbero i latini. Meglio essere forti e presenti oggi sia sul fronte interno, controllando in modo capillare le aree nevralgiche del Paese sia sulla politica estera, cercando di dialogare con Stati Uniti e Unione europea su temi come l’immigrazione e la lotta senza frontiere allo Stato islamico (Isis). Attendersi un processo democratico in via di definizione, soprattutto in una parte del mondo soggetta a continui mutamenti geopolitici e rovesciamenti di potere, può risultare oggi poco meno di una vaga utopia.

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